Premessa
Il presente dossier vuole analizzare gli eventi accaduti nella notte tra il 13 e il 14 novembre a Parigi. Una serie di attacchi terroristici molto ben organizzati che hanno avuto per bersaglio comuni luoghi d’incontro dei cittadini francesi, ma anche di molti turisti. Indagando sulle dinamiche organizzative e sulle strategie operative utilizzate dagli attentatori cercheremo di fornire un quadro completo dell’accaduto e di far chiarezza in merito alle tante notizie, anche false, circolate nei media e di alcune ricadute secondarie.
Per il seguente studio sono state utilizzate le fonti aperte, liberamente consultabili nella rete, attraverso le tecniche dell’Open Source Intelligence, e mediante un’analisi di queste informazioni si è cercato di ricostruire i fatti in modo da poter trarne nuove interpretazioni e contribuire allo studio di un fenomeno che sembra allontanarsi sempre più dalle definizioni in cui cerchiamo di incastrarlo.
Esamineremo le conseguenze logiche degli attentati per cercare di capire se queste saranno fruttuose per il jihadismo globale o per le nazioni che si trovano coinvolte in questo scontro. E attraverso le seguenti considerazioni ci proponiamo di far chiarezza su alcuni punti che in questa settimana hanno fatto molto discutere:
- Sicurezza Nazionale
- Modus Operandi degli attacchi
- Metodologia di comunicazione
- Il perché dell’obiettivo francese
Executive Summary
I fatti di Parigi mettono in evidenza come l’interconnessione delle politiche globali risulti ormai un dato di fatto. Non possiamo più ignorare le conseguenze delle azioni di Stati, organizzazioni criminali, gruppi insurrezionalisti (di matrice jihadista o meno) a livello globale. Gli odierni scenari globali sono assoggettati al principio comunemente conosciuto come “effetto farfalla”, ovvero ad una sensibile dipendenza dalle condizioni iniziali, alle cui piccole variazioni corrispondono grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema. Si pensi dunque alle conseguenze della destabilizzazione e delle guerre nell’estesa fascia di mondo del Grande Medio Oriente, ma anche ai recenti francesi. La sicurezza nazionale in questo senso c’entra relativamente poco poiché essa è deputata al reclutamento di informazione e all’attuazione di piani di protezione degli interessi nazionali ma non assolve la funzione di decisione che spetta sempre e comunque al decisore politico.
I fatti di Parigi in questo senso non possono che essere considerati come un “catalizzatore” poiché hanno comportato delle conseguenze repentine sia sugli assets interni sia su quelli esterni rispetto allo scacchiere internazionale.
Assets interni:
- – ricorsa allo Stato d’emergenza;
- aumento delle politiche nazionali;
- cambiamenti rispetto alle politiche comunitarie (chiusura delle frontiere);
- rafforzamento della legislazione in termini di sicurezza;
- riforme dei servizi segreti;
- aumento dell’industria bellica.
Assets esterni:
- indebolimento dell’ONU e la quasi scomparsa del diritto onusiano;
- indebolimento dell’Unione Europea;
- intervento in Siria;
- avvicinamento sul versante tattico delle potenze occidentali alla Russia.
Se queste sono dunque sono le conseguenze dei fatti di Parigi, dal versante interno al jihadismo globale, ed in merito ai recentissimi avvenimenti di Bamako si assiste a
- aumento della capacità operativa del jihad globale;
- rafforzamento dei legami tra vari gruppi jihadisti nel mondo;
- aumento della capacità mediatica dell’Isis rafforzata dai sistemi di comunicazione occidentali che amplificano le reali capacità dei gruppi terroristici;
- aumento della capacità di reclutamento come conseguenza dei raid occidentali in territorio siriano;
- raggiungimento dello scopo di uno scontro di civiltà in merito alla dialettica politica perpetuata in occidente.
Il grafico riportato a fianco dimostra come le scelte politiche dell’occidente stiano rafforzando il primo obiettivo del jihadismo globale: uno scontro tra civiltà e la costituzione in tutto il medio oriente di un califfato.
Gli attentatori di Parigi
La polizia e l’intelligence francese sono quasi certe che gli attentatori del 13 novembre erano in totale 8, di cui solamente 5 identificati. Tra questi, l’unico sopravvissuto e attualmente latitante è Salah Abdeslam, francese nato a Bruxelles. Suo fratello Brahim Abdeslam insieme a Samy Amimour, Omar Ismaïl Mostefaī e Bilal Hadfi sono tutti morti, uccisi dalla polizia o dagli esplosivi che hanno usato per effettuare gli attentati. Sempre secondo le fonti di sicurezza francesi, l’ideatore dell’attentato è Abdelhamid Abaaoud, che dopo alcune speculazioni su una sua partenza in Siria è emerso che è stato ucciso durante un blitz delle forze di sicurezza francesi a Saint Denis. Resta ancora il dubbio sull’identità del terrorista Ahmad Almohammad, il cui passaporto – siriano – è stato trovato vicino al luogo dove ha innescato il detonatore. Il passaporto risulterebbe essere falso, ossia di quella serie di documenti trafugati in Siria che hanno raggiunto la vicina Turchia, col fine di gestire un business redditizio sulle spalle dei profughi che necessitano di un passaporto siriano per poter ottenere lo statu di rifugiato.
Il quartiere di Molenbeek è diventato famoso nei giorni seguenti all’attentato a causa dei vari blitz effettuati dall’antiterrorismo belga e dalla provenienza di alcuni degli attentatori. Il quartiere di Molenbeek è un quartiere popolare dove risiedono circa 81.000 persone. Tra queste, la comunità musulmana occupa una percentuale importante della popolazione, nel cui solo quartiere vede la presenza di 22 moschee. La provenienza della maggior parte di loro sarebbe dal Marocco e dalla Turchia, sebbene siano ormai integrati da generazioni nel quartiere.
A rendere il quartiere di Molenbeek una “fucina” di miliziani sono i dati macroeconomici in netto contrasto con la media del Belgio, un Paese dove la disoccupazione si attesta all’8,4% mentre nel solo quartiere di Bruxelles è al 40%. In un quartiere complicato da un punto di vista economico, la comunità salafita è riuscita a mettere le proprie radici come ha confermato anche Ahmed El Kannouss, parlamentare belga ed ex consigliere comunale di Molenbeek. Il politico belga si trova tuttavia in disaccordo nell’affermare che tutto il quartiere sia una base dell’estremismo fondamentalista, anche se i blitz degli ultimi giorni fanno presumere che la stima sia stata sottovalutata dalle autorità. In questi giorni le autorità stanno cercando di stringere la morsa sulla rete che sarebbe responsabile dell’organizzazione degli attentati di Parigi, dal momento che è presumibile che, oltre agli 8 esecutori degli attacchi, vi sia una base di almeno 30-40 persone per il coordinamento, costruzione di armi e pianificazione degli attentati. Il quartiere era già noto alle autorità belghe a causa di numerose interconnessioni tra il terrorismo di matrice jihadista e la popolazione locale. Molenbeek infatti era correlato con altri numerosi attentati: l’attacco al Museo ebraico di Bruxelles del 2014, l’attentato fallito sul treno francese della compagnia Thalys nel 2015, gli attacchi contro la redazione di Charlie Hebdo e lo smantellamento di una cellula che aveva in previsione numerosi attentati sparsi per l’Europa. Ma il rapporto di Molenbeek con l’estremismo jihadista è di lunga data: nel 2001 fu assassinato da due persone, residenti a Molenbeek, Ahmed Shah Massoud, militare e politico afghano ma soprattutto oppositore del regime dei talebani. Sempre nello stesso quartiere avevano vissuto due attentatori di Madrid, che solo in seconda battuta fu attribuito dalle autorità spagnola all’estremismo islamico, dopo aver accusato l’ETA.
Ecco quindi che la grande abilità dello Stato Islamico può far facilmente presa in regioni (in questo caso quartieri) dove la mancata integrazione socio-economica con il resto del Paese è marcata. La semplificazione del sunnismo con l’estremismo di matrice islamista è un grave errore nell’analisi del fenomeno jihadista, giacché in Europa, intesa come territorio e non come Unione Europea, esistono comunità musulmane sunnite autoctone, e non quindi derivate dall’immigrazione, che tuttavia nulla hanno a che fare con il terrorismo jihadista: due esempi chiave sono l’Albania e la Bosnia-Erzegovina.