L’illegittimità dell’invasione russa in Ucraina e le strategie di lawfare impiegate nel conflitto, alla luce dei principi di diritto internazionale pubblico.
Un’intervista alla Dott.ssa Joanna Siekiera, Ricercatore post-dottorato presso la Facoltà di Giurisprudenza, Università di Bergen, Norvegia ed Esperto in materia presso il Centro di eccellenza della polizia di stabilità della NATO a Vicenza, Italia.
di Miriana Fazi
Dottoressa Siekiera, grazie per aver accolto con entusiasmo la mia proposta. La sua esperienza come docente di diritto internazionale e come Esperto NATO ci consentirà di creare un ponte fortemente attendibile, per filtrare le informazioni che i cittadini traggono dai media. Lei sarà una figura chiave e condurrà un’analisi di altissimo profilo, per aiutarci a comprendere cosa sta succedendo tra Russia e Ucraina. Se non le dispiace, facciamo il punto della situazione per chiarire le premesse da cui ha avuto origine il conflitto.
In data 21 febbraio 2022, il Cremlino ha riconosciuto l’indipendenza delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Luhansk, ma d’altro canto ha ordinato l’invasione dell’Ucraina, calpestandone autonomia e indipendenza. Si è verificata una chiara e inequivoca lesione del diritto internazionale? Se sì, in che termini?
Per comprendere i risvolti legati alle tensioni che serpeggiano tra Russia e Ucraina, bisogna partire da un assunto di base. L’Ucraina è uno Stato legittimo, perché legittimamente costituito. La sua dichiarazione d’Indipendenza, adottata dal Parlamento, risale al 16 Luglio 1990. Pertanto, a far luogo da quel momento, in ossequio ai principi che informano il diritto internazionale, la Repubblica semipresidenziale Ucraina ha potuto avocare a sé non soltanto il potere di autodeterminazione, ma anche il diritto di esercitare la sovranità, in via esclusiva e senza interferenza di terze parti, entro i confini del territorio nazionale, nonché sugli organismi facenti capo ad esso. A tal proposito, la domanda è: come si può inquadrare, giuridicamente, la strategia del Presidente Putin? Cerchiamo di capirlo insieme.
Ad oggi, nell’ambito della comunità internazionale e in congruenza con lo status quo stabilito dall’ordine westfaliano, lo stato occupa ancora una posizione predominante, sebbene stiano emergendo parallelamente alcuni attori non statali, come le NSA[1]. Qual è il precipitato diretto di questa posizione di primazia dello Stato? È evidente: esso rappresenta l’unica entità che gode, in via esclusiva, del potere di creare ex nihilo una norma vincolante. Alla luce di questo, è importante tenere traccia della maniera in cui, a livello normativo, la disciplina dello Stato sia cristallizzata mediante fonti di rango internazionale. Senza dubbio, benché la trattazione della materia sia stata per lungo tempo relegata alla sfera del diritto consuetudinario, il primo tentativo di codificazione si è raggiunto attraverso la Convenzione di Montevideo sui diritti e i doveri degli Stati, firmata nella capitale dell’Uruguay nel 1933. Il Trattato in questione ha registrato un rimarchevole successo poiché, per primo, ha avuto il pregio di delineare alcuni criteri generali in presenza dei quali un Paese può convertirsi in uno Stato: una popolazione permanente, un territorio definito controllato da essa e un governo efficace che dispieghi i suoi poteri indisturbatamente su quel particolare territorio. Peraltro, secondo la dottrina maggioritaria, dai tre criteri discende un corollario: un Paese può assumere la veste di Stato solo se detiene la capacità di entrare in relazioni con altri Stati (quindi dev’essere in grado di firmare trattati internazionali). Tuttavia, proseguendo la trattazione sul piano dei criteri necessari a definire uno Stato, spesso viene trascurato un ulteriore requisito di ordine legale, che appartiene al diritto consuetudinario. Si tratta del c.d. riconoscimento internazionale di uno Stato. Infatti sovente la comunità internazionale si esprime circa la scelta di accordare o meno il riconoscimento a un determinato Paese, nell’ottica di consentire la sua affermazione come Stato. Un primo esempio può essere fornito citando lo Stato di Palestina, che oggigiorno non è riconosciuto dalla comunità internazionale come Stato, bensì solo ed esclusivamente come Paese. La conferma di questo assunto si può trovare anche osservando quale sia il suo status in seno all’ONU: la Palestina è un mero osservatore, ma non si può stimare quale membro a pieno titolo. A latere di quello appena riportato, un altro esempio plastico è rinvenibile nella Crimea: essa non è riconosciuta come parte della Federazione Russa. Certamente, ci sono alcune eccezioni, come gli Stati che si associano al Cremlino, quali Armenia, Bielorussia, Cuba, Siria e Venezuela. Quel che è certo, è che il criterio del riconoscimento internazionale può rivelarsi uno strumento politico di sostegno o di condanna aperta dell’azione di un altro Stato. In ogni caso, qualunque Paese abbia invocato nel tempo la Convenzione di Montevideo, ha susseguentemente ottenuto il riconoscimento internazionale dalla maggior parte degli Stati. Il Kosovo, infatti, continua a non essere riconosciuto dalla Russia e dai suoi alleati, ma ad oggi viene considerato uno stato indipendente sotto il profilo della scienza politica e uno stato sovrano, sotto il profilo legale. Sulla base di questa ampia premessa, è appena il caso di entrare nel vivo della domanda, cercando di comprendere se si siano registrate violazioni del diritto internazionale da parte del Presidente Putin. Muovendo da un focus sulle repubbliche di Donetsk e Luhansk, occorre specificare che queste ultime non sono mai state considerate degli stati sovrani. Alla base del diniego c’è un’incontestabile evidenza: i Paesi in questione non hanno mai goduto di piena indipendenza, cosicché risulta impossibile affermare la loro natura statuale. Infatti, da un lato l’Ucraina non ha rinunciato a reclamare il territorio come proprio e, dall’altro, i due Paesi sono sempre oggettivamente dipesi dalla Russia. Per poter comprendere appieno le dinamiche del conflitto, in queste circostanze più che mai, è necessario tenere conto del contesto storico e culturale su cui poggiano le zone interessate. Trattandosi, nella specie, di Paesi collocati nel versante orientale dell’Ucraina, è utile rimarcare come la popolazione abbia sempre percepito una naturale affiliazione verso il panorama russo. La lingua corrente è infatti quella in uso a Mosca e non l’ucraino. Inoltre, dal punto di vista fideistico, la gran parte delle persone aderisce alla Chiesa ortodossa, non a quella greco-cattolica legata a Kiev.
Dunque Putin è un aggressore ingiustificato, secondo le norme consuetudinarie e pattizie di diritto internazionale pubblico?
Alla luce di quanto premesso poc’anzi, Putin non può invocare legittimamente alcuna normativa internazionale, che possa giustificare l’aggressione all’Ucraina. Volendo essere più specifici, per inquadrare l’argomento sotto un profilo schiettamente legale, occorre citare la Carta delle Nazioni Unite del 1945. L’elaborazione di questo documento si riannoda a un’esigenza che, fin da allora, veniva percepita dagli attori statuali: produrre una fonte normativa chiara e scevra di ambiguità, che fungesse da punto di riferimento per tutti gli accordi, nazionali e regionali. Di conseguenza, benché l’interpretazione delle norme sia soggetta a rimaneggiamenti e a variazioni, la Carta delle Nazioni Unite enuncia un principio incontrovertibile, ossia il divieto della forza. In ragione del suddetto divieto, la regola generale stabilisce che uno stato non deve usare la forza militare contro un altro stato. Le eccezioni a questa condizione sono soltanto due: uno stato può impiegare l’uso della forza solo per legittima difesa o, in alternativa, se il Consiglio di Sicurezza ONU lo autorizza.
Ne deriva che, al di fuori di questi casi, vige il divieto generale di dichiarare guerre. Il termine “guerra”, peraltro, può definirsi superato: l’evoluzione del diritto internazionale umanitario ha portato alla scomparsa di questo vocabolo dalla terminologia ufficiale, adottata nell’ambito delle relazioni internazionali. Certo, ci sono e ci saranno sempre dispute reciproche, controversie bilaterali o multilaterali, contenziosi e attriti, così come brutalità e atti disumanizzanti da parte di individui e gruppi. Eppure, dal punto di vista meramente terminologico, ad oggi si adopera il lemma “conflitto armato” in luogo del vocabolo “guerra”.
Qual è la conseguenza di questo dissesto terminologico, sul piano del warfare? Uno Stato può essere parte di un conflitto armato, ma non può muovere guerra deliberatamente, in assenza di una delle due cause eccezionali riportate in precedenza. Inoltre, a ulteriore conferma di questa visione, un territorio non può qualificarsi come stato se la sua creazione deriva da una forza militare illegale mediante occupazione, azione militare e altri atti illeciti commessi contro i principi del diritto internazionale. Non può considerarsi stato, dunque, un territorio che sia stato espugnato aggirando la necessità di agire in buona fede o quella di astenersi da trucchi viziosi. Simili premesse possono chiarire la situazione delle repubbliche ucraine orientali. Infatti sembra che, fin dall’annessione della Crimea nel 2014, la loro sopravvivenza sia stata resa possibile solo grazie a un illegittimo sostegno militare russo. Illegittimo, perché lesivo della sovranità esclusiva ucraina su quei territori.
La Russia, in corso di conflitto, si era avvalsa dei c.d. “convogli umanitari bianchi” e dei “piccoli uomini verdi”, per realizzare una guerra ibrida. Quest’ultimo modello aggressivo disconosce, ora come allora, il ruolo chiave dei convenzionali mezzi di guerra, che non rivestono più una posizione di primazia assoluta su altri mezzi alternativi.
Putin ha riconosciuto le Repubbliche di Donetsk e di Luhansk e questo, ormai, è un dato di fatto. Il dubbio capitale resta uno: gli altri Stati si adegueranno alla sua scelta o rifiuteranno di riconoscere le Repubbliche? Quale sarebbe la condotta più adeguata da seguire, il riconoscimento o la negazione dello stesso?
È difficile sbilanciarsi in previsioni che mirino a chiarire la condotta dei singoli Stati. La vicenda è ancora nel pieno del suo svolgimento, le variabili in gioco sono tante. I mutamenti di scenario possono condurre a molteplici e disparate conseguenze, anche da questo punto di vista. In definitiva, è ancora presto per poter dire con certezza se la comunità internazionale si dirà pronta a riconoscere o meno le Repubbliche del Donbass e, per il vero, questo non è il fulcro della questione. È palese che tale riconoscimento sia un vero e proprio cavallo di Troia, un casus belli dal gusto pretestuoso, per ottenere il controllo su Kiev. È bene ripeterlo spesso e aver chiaro questo concetto. Secondariamente, è senz’altro possibile applicare sartorialmente alla questione una veste giuridica, per comprendere quale atteggiamento si potrebbe ritenere giusto e quale, invece, sarebbe contrario al diritto internazionale. Partiamo dall’enunciazione di una regola generale: ogni Stato può, espressamente o per facta concludentia, decidere in piena autonomia se riconoscere o meno un territorio come Stato. Le valutazioni di volta in volta effettuate, per addivenire a una conclusione, sono spesso eterogenee e disparate. Il riconoscimento tende a prendere piede quando si riveli appropriato e vantaggioso per gli interessi dello Stato che intende riconoscere un altro Stato: spesso la valutazione è mossa dalla volontà di mantenere o principiare forme di alleanza e/o cooperazione economica, che potrebbero assumere un peso politico significativo. Basti pensare che il riconoscimento è di solito richiesto per stabilire immunità sovrane e diplomatiche o per invitare un nuovo stato a un’IGO. In ogni caso, per esigenze di chiarezza, è utile presentare le due teorie sul riconoscimento degli stati, che si contendono il campo tra le fila della dottrina. La prima è la teoria costitutiva, a tenore della quale uno Stato non esiste, finché non riceve il riconoscimento. Ad essa si contrappone la teoria dichiarativa, sulla cui base uno stato esiste anche senza riconoscimento. Di riflesso, volendo accordare il favore a quest’ultima teoria, il riconoscimento deve intendersi come un atto che si limita ad acclarare uno status quo: esso non reca con sé il potere di costituire uno Stato ex novo, ma si limita a dare atto della sua già conclamata esistenza. È proprio la teoria dichiarativa ad aver prevalso, nel tempo. Ciò premesso, è logico pensare che un’entità – di norma- ha più possibilità di essere riconosciuta come Stato su larga scala, se ha ottenuto il riconoscimento da parte di molti Stati. Tuttavia, non tutte le entità riescono a ottenere un pieno grado di statualità. Un esempio di tale condizione potrebbe essere fornito dal referendum delle Barbados nel 2021, a fronte del quale il Paese aspirava a essere indipendente dal monarca britannico, lasciando il Commonwealth delle Nazioni. Dal momento che le Barbados non godevano dei necessari indici di statualità, il referendum non ha avuto esito favorevole. Quel che bisogna rimarcare, peraltro, è che a volte uno Stato deve astenersi dal riconoscere l’esistenza o l’alterazione di un altro Stato. Questa situazione, di solito, si verifica quando lo Stato o lo Stato alterato è sorto da azioni militari illegittime, violazioni dei diritti umani o altre chiare violazioni delle norme e dei principi internazionali. Da questo punto di vista, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha creato un importante precedente, annullando l’annessione del Kuwait all’Iraq, durante il periodo precedente la guerra del Golfo (1991). Infine, a chiosa dell’analisi sulla disciplina del riconoscimento di uno Stato, bisogna ricordare un’ultima importante condizione che può ostare a un riconoscimento. Potrebbe infatti darsi che uno Stato non riconosca un’entità perché quest’ultima, pur essendo in linea con i criteri di base richiesti dalla statualità, non sia tuttavia in grado di soddisfare alcuni specifici requisiti aggiuntivi. Ad esempio, gli Stati formati durante la dissoluzione dell’Unione Sovietica non hanno ricevuto il riconoscimento dalla Comunità europea, fino a quando non hanno assunto impegni nell’ambito della non proliferazione nucleare, dei diritti delle minoranze e del rispetto dei confini. Tuttavia, applicando questo paradigma agli Stati che compongono l’Unione Sovietica, va rimarcato come questi fossero veri e propri Stati sovrani, prima che intervenisse la loro illegale annessione e incorporazione all’Unione Sovietica. Si richiama, a tal proposito, la recente argomentazione del Cremlino sulla promessa della NATO di non espandersi verso est negli anni ’90. Tuttavia, a una più attenta analisi, tale accordo intercorso tra l’Occidente e l’URSS è stato assunto a discapito degli stati dell’Europa centrale e orientale.
Quindi, in definitiva, il riconoscimento delle Repubbliche di Donetsk e Luhansk può dirsi illegale?
Sì, si tratta di un riconoscimento essenzialmente illegale, sebbene i tentativi di manipolazione mediatica della disciplina di riferimento siano molteplici, da parte dell’aggressore. Basti pensare alle affermazioni dell’RT, una rete televisiva controllata dallo stato russo. Russia Today, infatti, ha sostenuto l’aggressione delle truppe russe all’Ucraina, avallando l’attacco armato con l’esigenza di reprimere la forte minaccia rivolta alla propria popolazione e al territorio russo. In ogni caso, quali che siano le parole pretestuose volte a rivendicare il crisma della legittima difesa, la sostanza non cambia: gli oblast di Donetsk e Luhansk sono parte integrante dell’Ucraina, proprio come la Crimea. Il mondo occidentale sostiene con forza l’integrazione territoriale dell’Ucraina e condanna ogni tentativo di ledere la sovranità territoriale e l’inviolabilità dei confini. Ciò che viene spesso dimenticato o intenzionalmente trascurato è l’esempio fornito dal c.d. lawfare. Con questo termine s’intende una sorta di nuova tattica di guerra, che si realizza in spregio ai principi e ai valori legali internazionali contro un nemico militare, al fine di raggiungere un obiettivo strategico. Questo è esattamente il modello di guerra che ha preso piede nella parte orientale dell’Ucraina. Lo schema seguito dalla cooperazione tra il Cremlino e le Repubbliche del Donbass può essere inquadrato come schema d’attacco chiaro e premeditato ai danni di Kiev. In primo luogo, i governatori dei due oblast hanno mosso la prima pedina contro l’Ucraina, organizzando un referendum sull’indipendenza dal governo di Kiev. Allo stesso tempo, il Cremlino ha preso ad accusare l’Ucraina di atti illeciti contro la minoranza russa che popola quella parte dell’Ucraina. Questa strategia di accuse pretestuose si è alimentata con un’escalation di minacce altrettanto pretestuose, che sembravano funzionali a uno scopo già determinato: l’invasione dell’Ucraina. Infatti, sul piano legale, la Russia ha adottato una linea argomentativa molto intensa e avversa alle autorità di Kiev, accusandole di genocidio. C’è da dire che Putin ha già sperimentato un simile pattern due anni fa, lamentando una possibile ripetizione del massacro di Srebrenica nell’Ucraina, se quelle regioni non fossero state riportate in Russia. E così, dopo aver preparato lo scacchiere a proprio vantaggio, Putin è passato all’azione. Le Repubbliche autonome hanno annunciato la loro indipendenza, invocando l’ultimo cavallo di Troia utile a incardinare il conflitto armato contro l’Ucraina. Infatti, le Repubbliche del Donbass hanno chiesto ufficialmente l’aiuto della Federazione russa, domandando di accedere alla stessa. Dal punto di vista giuridico, le repubbliche di Donetsk e Luhansk non sono Stati e di riflesso rimangono soggetti alla sovranità dell’Ucraina. Riconoscendoli, la Russia ha negato la sovranità di Kiev, unico legittimo Stato sovrano. Questi riconscimenti basati su premesse e finalità pretestuose sono noti alla storia: si pensi che, nel 1903, gli Stati Uniti riconobbero parte della Colombia come il nuovo stato di Panama, in modo che gli americani potessero costruirvi un canale. Più tardi, nel 1932, il Giappone riconobbe parte della Cina nord-orientale come il nuovo stato del Manchukuo, per renderlo una sorta di avamposto giapponese. Tuttavia, in termini normativi, il riconoscimento illegale di uno Stato può essere utilizzato per giustificare un’invasione altrettanto illegale. In altre parole, un atto illecito è seguito da un altro atto illecito da parte del medesimo stato “aggressore”. In questo profluvio di violenza, a pagare lo scotto sono principalmente i civili: donne, anziani, disabili e bambini. È ciò che sta accadendo in Ucraina, al momento, per mano di un aggressore che muove da premesse illecite di riconoscimento e sta conducendo una forma di invasione altrettanto illecita.
A proposito di modalità aggressive illecite: la Russia ha mai agito secondo schemi simili?
Certamente. La Russia cavalca il riconoscimento statale illegale per giustificare una conseguente invasione – parimenti illegale – ai danni di un altro Stato sovrano. Di recente si è sentito parlare di “operazioni di peace keeping”, condotte dalla Russia. Ebbene: l’aggressione alla sovranità dell’Ucraina è stata mascherata dietro la necessità di condurre operazioni militari di pace, volte a garantire l’integrità territoriale e la sovranità delle Repubbliche del Donbass. C’è da dire che la Russia, in quanto membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha condotto anche in passato frequenti operazioni di peace keeping. Si pensi alla missione in Moldavia, condotta nel 1992. In quel contesto accadde che gli abitanti della Transnistria chiesero alla Russia una protezione militare contro i moldavi. Il laitmotiv tra la missione in Moldavia e quella in Donbass è il medesimo: entrambi i territori, storicamente e culturalmente, percepiscono la propria affiliazione al panorama russo, piuttosto che a quello – rispettivamente – moldavo e ucraino.
Pertanto, avendo riguardo all’operazione militare condotta in Moldavia, si può osservare come il nome ufficiale di questa entità, ossia “Repubblica moldava pridnestroviana”, è inesatto. Bisogna piuttosto considerarla come una repubblica moldava, benché sia ancora oggi sotto il dominio di Mosca e dipenda da essa sia per le risorse di benzina e gas, sia per i collegamenti, sia per la presenza di truppe russe di stanza in vari punti del Paese. Tuttavia, poiché i territori di Donetsk e Luhansk appartengono ancora dell’Ucraina, il tipo di attacco condotto dalla Russia è da stimarsi nei termini di un’invasione, piuttosto che come una dichiarazione di guerra. Per quali ragioni? Anzitutto, la Russia non ha dichiarato guerra all’Ucraina. In seconda istanza, dal punto di vista squisitamente ideologico, la dichiarazione di guerra è un atto che contrasta con i principi del diritto internazionale umanitario. Se le due repubbliche del Donbass fossero realmente Stati sovrani, come dichiarano scorrettamente di essere, sarebbe loro diritto invitare le truppe russe entro i confini del proprio territorio. Questo costume è sovente seguito da altri Stati sovrani, che per l’appunto sono liberi di ospitare truppe statunitensi per risolvere i loro problemi interni, quali la violazione dei diritti umani o l’inefficace esecuzione di legge e ordine. In aggiunta, le repubbliche di Donetsk e Luhansk rivendicano anche parte del territorio ucraino che, di fatto, non soggiace al loro controllo. Tali rivendicazioni territoriali aggiuntive, che investono anche territori non appartenenti a quelli delle Repubbliche, violano i requisiti di Montevideo. La Russia quindi, con abili strumenti di lawfare, sta prepotentemente affermando il falso alla luce dei trattati internazionali ad oggi vigenti, al fine di espugnare l’Ucraina nella sua interezza, minandone la sovranità. L’intento del Cremlino, come appare ormai chiaro, non è certo quello di fermarsi soltanto alla rivendicazione delle Repubbliche del Donbass. Nell’ottica dell’aggressore russo, Kiev deve capitolare e l’Ucraina deve subire una battuta d’arresto nei suoi rapporti con la NATO. In ogni modo, non è la prima volta che la Russia si spinga troppo oltre, con le proprie operazioni militari, pur senza l’impiego massiccio di armi. Nel 2008, la Russia ha riconosciuto due parti separatiste della Georgia come stati: Abkhazia e Ossezia del Sud. Ha fornito loro un ampio sostegno al bilancio, ha esteso la cittadinanza russa alle loro popolazioni e vi ha stazionato migliaia di truppe. Questa situazione persevera finanche al giorno d’oggi. Più tardi, nel 2014, la Russia ha riconosciuto una parte dell’Ucraina – la Crimea – come nuovo paese. In questo caso, la Russia si è spinta ben oltre l’occupazione militare. La cosiddetta repubblica di Crimea ha avuto una durata alquanto breve. Nel giro di due giorni, infatti, ha tenuto un referendum contestato e ha firmato una sorta di trattato, per diventare parte della Russia. Ancora una volta viene in luce un’aggressione condotta con mezzi di lawfare, senza carri armati.
Sulla base di questi elementi, si può affermare che la Russia sia, attualmente, lo Stato più aggressivo al mondo nel condurre operazioni di lawfare?
La Russia è uno degli Stati più aggressivi al mondo per quanto concerne l’impiego delle operazioni di lawfare, ma di certo non è l’unico Stato che manda a segno simili tattiche. Del resto, com’è intuitivo, non è nemmeno l’unica grande potenza che gioca simili mosse dal carattere illecito. Anche l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003 è stata ampiamente condannata come illegale. Forse la vera differenza tra USA e Russia risiede nel fatto che la Russia sta sfidando la legge in un modo più sostenuto e sistematico: questo approccio incute timore agli Stati democratici. Si potrebbe pensare che la Russia vorrebbe appellarsi a uno status quo ante, riportando il mondo a come era prima del 1945? Quel che è certo, è che l’appetito imperialista del Cremlino è visibile a occhio nudo. Lo testimoniano gli atti aggressivi nei confronti di Moldavia, Georgia e Ucraina, nonché gli attacchi informatici perpetrati ai danni degli Stati baltici e della Polonia.
Dr. Siekiera, lei conosce meglio di chiunque l’arte della guerra. Secondo Sun Tzu, “I guerrieri vittoriosi prima vincono e poi vanno in guerra, mentre i guerrieri sconfitti prima vanno in guerra e poi cercano di vincere”.
L’Unione Europea e la NATO, in questo scenario, mi sembrano rientrare nella seconda categoria. È come se brancolassero nel buio, indecisi sul da farsi, mentre Putin conosce chiaramente le proprie mosse, presenti e future. Stiamo peccando di eccessiva inerzia sia come Unione che come Alleanza Euro -Atlantica, nella sua ottica?
Partiamo da una premessa importante: dal momento che sono polacca, sono pienamente consapevole di quanto sia complessa la storia dell’Europa centro-orientale. Di rimando, devo ammettere che qui in Polonia non siamo affatto sorpresi dalla situazione che stiamo osservando da settimane: mi riferisco alla preparazione strategica russa, sfociata con grande naturalezza nell’invasione dell’Ucraina. Quando guardo il canale Russia Today, che peraltro è vietato in Polonia, sento riecheggiare la voce del Cremlino: si parla di “liberazione” dell’Ucraina. Davanti a simili posizioni io, francamente, mi chiedo: questa è una liberazione dell’Ucraina da chi, dagli ucraini stessi? Signori, l’anno 1945 ha portato con sé non solo la fine della seconda guerra mondiale, ma ha segnato – de iure et de facto – anche la fine di un tragico periodo. A cosa mi riferisco? All’ ingiustificata occupazione russa ai danni di Stati limitrofi, che sono stati trattati per lungo tempo alla stregua di satelliti. Infatti, focalizzando l’attenzione sulla situazione in Europa centrale e orientale, la Russia non può essere salutata, storicamente, come un deus ex machina. Non ci ha liberati, anzi: ha imposto regole indesiderate e inumane. Sono state perpetrate palesi violazioni dei diritti umani, tra cui il diritto alla dignità, allo sviluppo sociale ed economico, all’istruzione e a un welfare rispondente alle esigenze dei cittadini. Non è un caso se, ad oggi, Stati come Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia, Repubblica ceca e Romania, temono la riproduzione di un simile scenario. Ora più che mai bisogna poter contare sulla coesione e sullo spirito di solidarietà e mutuo soccorso, in seno all’UE e alla NATO.
Un’ultima domanda, dottoressa Siekiera, per delineare un possibile scenario di previsione che sia congruente con il suo punto di vista. Qualora l’Ucraina dovesse cadere sotto i colpi di Mosca, Putin assumerebbe un atteggiamento più aggressivo anche nei confronti dell’Occidente? Oppure si limiterebbe al mero controllo dell’Ucraina, per scongiurare il pericolo della sua annessione alla NATO, secondo quanto stabilito nel summit di Bucarest del 2008?
Dal canto mio, posso pronosticare uno scenario simile: se l’Ucraina dovesse cadere, tornando sotto il dominio di Mosca, l’aggressore non sarà motivato a fermarsi qui. Al contrario, sfrutterà la posizione di vantaggio appena acquisita per muovere verso ovest. Pertanto anche l’Europa centrale può considerarsi, attualmente, colpita in via preliminare dal pericolo della minaccia russa. Questo aspetto viene spesso trascurato da molti miei colleghi occidentali, che lo fanno passare sotto silenzio. Eppure, come avvocato internazionale che si occupa del diritto dei conflitti armati, ripeto sempre questo brocardo: “si vis pacem, para bellum”. Ciononostante, quando ho presentato la mia visione a uno dei professori norvegesi di diritto, nel 2020, egli mi ha risposto: << Non c’è guerra>>. È vero, allora non c’era guerra, ma mi par di vedere che oggi la guerra c’è. Omnia mutantur et nos in illis. Abbiamo davvero bisogno di aspettare che si verifichi la guerra, per proteggerci con un buon arsenale sul piano legislativo, di strategia politica e di logistica, per proteggere la sicurezza dei nostri abitanti e la sovranità degli Stati? No, chiaramente no. Non dobbiamo essere ingenui. L’attesa passiva non è pacifismo, è solo un’incertezza che ci conduce a vacillare, pro futuro, in situazioni di pericolo e netto svantaggio.
Note:
[1] Con la sigla NSA si suole intendere multinazionali (Facebook, Twitter, consorzi petroliferi) o attori ibridi (il gruppo Wagner si definisce un’agenzia privata di appalti militari, ma di fatto è un proxy russo).
Per informazioni ulteriori sugli attori ibridi si consiglia la lettura del seguente contributo:
I deputati elencano i crimini dei mercenari del ‘proxy del Cremlino, 2021, EU Obserber disponibile all’indirizzo: https://euobserver.com/world/153643 l’ordine mondiale. La legge scorre, dipende dalla volontà politica e dagli interessi che riflettono tempi dinamici. Tuttavia, gli stati sono quelli che possono fare di più.