La Turchia post-primavere arabe ha, di certo, delle novità rispetto a quella pre-2011. Da una parte il nuovo contesto geopolitico. La Siria, verosimilmente, non esiste più. Frammentata in più parti, il potere di Assad è stato fortemente ridimensionato dalla guerra civile, sia internamente che a livello internazionale. Anche se è vero che si può parlare di “vittoria” del fronte governativo di Damasco, il dittatore alauita non conta più dell’appoggio interno ed internazionale di prima del conflitto civile.

Oltre a questo, ovviamente, la questione curda. Le pretese di un Kurdistan indipendente erano già presenti anche prima delle primavere arabe. Il governo iracheno, iraniano, turco e siriano (che rappresentano i quattro paesi dove maggiore è la presenza curda sul territorio) oltre che quelli internazionali, hanno sempre evitato di affrontare la situazione in maniera definitiva, in un modo o un altro. Una cosa che le guerre moderne hanno dimostrato è che non sono più semplici come un tempo. Le battaglie decisive, alla Carl von Clausewitz, dove due distinti e massici eserciti si scontravano su un campo di battaglia regolare, stabilendo le sorti della guerra e dell’ordine mondiale, non esistono più. E non esistono soprattutto nell’era della guerriglia e del terrorismo ideologico e religioso.

Intervenire militarmente per sedare le ribellioni e pretese curde, quindi, sembra impossibile. Una tattica, questa, già provata in passato, anche nel recente periodo dalla Turchia di Erdogan, ma che a poco è servita. I curdi hanno giocato un ruolo fondamentale nella guerra appena finita in Siria, e adesso le loro aspirazioni indipendentiste sono notevolmente aumentate. Essi hanno offerto assistenza alla comunità internazionale e, a guerra finita, vogliono vedersi riconosciuti i propri diritti e le proprie richieste.

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