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di Danilo Giordano

 

Il cammino politico intrapreso dalla Gran Bretagna con la storica decisione di lasciare l’Unione Europea, non è ancora entrato nel vivo ad un anno di distanza dal referendum del 23 giugno 2016. A seguito degli esiti di quella importante votazione, nella quale la volontà di lasciare la mai tanto amata UE si affermò di poco sui propositi di rimanere, l’aspettativa comune era che nel volgere di poco tempo sarebbero iniziate le trattative per la Brexit. La realtà è stata ben diversa perché tra quello storico risultato e l’altrettanto storica attivazione dell’articolo 50, ovvero l’articolo del Trattato di Lisbona che regola l’eventuale fuoriuscita di un paese membro dal consesso europeo, sono trascorsi nove mesi. La svolta è arrivata soltanto lo scorso 29 marzo, quando l’ambasciatore britannico Tim Barrow ha consegnato nelle mani del presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, la tanto attesa richiesta del governo britannico: da quel momento è iniziato il conto alla rovescia per il limite dei due anni previsti dal Trattato di Lisbona per la fine delle trattative.

Le manovre interne alla politica britannica sono molto difficili da interpretare in questi anni ed un pò a sorpresa è arrivata, il 18 aprile, la richiesta della premier Theresa May di andare ad elezioni anticipate. Nonostante gli attimi di smarrimento iniziali, il giorno successivo il parlamento britannico ha approvato, con 522 voti a favore e 13 contrari, la richiesta della premier, calendarizzando le elezioni per l’8 giugno prossimo. La proposta di elezioni anticipate non ha incontrato alcun ostacolo dato che, ad eccezione dello Scottish National Party, Labour e Lib Dem si sono detti favorevoli, ed il 2 maggio il Parlamento è stato sciolto ufficialmente.

Solitamente si raggiunge la consapevolezza che siano necessarie elezioni anticipate quando una squadra di governo od un partito non riescono più a governare e si rende necessario ridare la parola agli elettori. Le parole con cui Theresa May ha annunciato le elezioni anticipate, non sono riuscite a chiarire i reali motivi della sua scelta: “stiamo uscendo dall’Unione Europea in condizioni economiche e politiche buone e stabili, senza alcuna incertezza e con una guida forte” ha detto la Premier nella sua dichiarazione dinanzi a Downing Street, puntualizzando che “purtroppo gli altri partiti sono contrari, il parlamento è diviso mentre il Paese chiede unità e […] solo se votiamo possiamo fermarli”. La scelta della May è, nonostante la retorica politica di contorno, frutto di un semplice calcolo strategico: i sondaggi dei primi mesi del 2017 hanno attribuito, costantemente, al partito conservatore un vantaggio di almeno 20 punti percentuali sui laburisti. La possibilità di approfittare politicamente di tale vantaggio, “cristallizzandolo” per cinque anni, dato che le prossime elezioni traslerebbero al 2022, rappresenta un’opportunità troppo ghiotta e difficile da farsi scappare. I Tories, al momento, dispongono di una maggioranza risicata (330 seggi sui 650 totali), ma possono approfittare di  un’opposizione parlamentare tutt’altro che compatta con i Laburisti a cercare di barcamenarsi tra la guida debole di Jeremy Corbyn e l’orientamento pro-Brexit di circa un terzo dei propri elettori, i Liberal Democratici ostinatamente pro-europei e lo Scottish National Party che vorrebbe un altro referendum per uscire dal Regno Unito, cosa che nessuna forza politica britannica accetterebbe mai.

La scelta del voto anticipato è anche una necessità personale di Theresa May, che dopo i risultati del referendum del 23 giugno e le dimissioni di David Cameron, è diventata premier senza avere l’investitura popolare, il conforto del voto. Con le elezioni anticipate May avrebbe la possibilità di ottenere questo riconoscimento, oltre che quello di guidare la più larga maggioranza conservatrice dai tempi di Margaret Thatcher, con la prospettiva di avere un mandato forte per la sua politica domestica, libero dalle costrizioni del manifesto elettorale del 2015, instaurando un dominio politico per almeno una decina d’anni.

Un primo risultato positivo della scommessa della May si è avuto il 4 maggio, quando gli elettori britannici si sono recati alle urne per le elezioni amministrative e hanno consegnato ai Tories una vittoria sorprendente, che non si vedeva da molti anni, riuscendo a sfondare anche in Scozia e Galles, dove i Labour sono sempre stati più forti. I conservatori sono riusciti anche nell’impresa di cancellare, quasi completamente, la classe dirigente dello UKIP, il principale sostenitore della Brexit, che dopo l’addio di Nigel Farage fatica a trovare nuova spinta e idee nuove e che ha perso 114 dei 115 seggi che aveva in precedenza. Ad uscire vincitori da questa tornata elettorale oltre ai conservatori (+558 seggi), sono stati anche i nazionalisti scozzesi (+31) e i gallesi (+26), mentre sono usciti malconci i laburisti (-320), i Liberal Democratici (-37) e lo Ukip (-114). In palio c’erano anche 34 consigli locali in Inghilterra, tutti i 32 consigli locali in Scozia e tutti i 22 in Galles: nel confronto con le precedenti elezioni, i tories hanno guadagnato il controllo di 11 consigli, i labour ne hanno persi 7. In aggiunta si è votato anche per le nuove aree metropolitane, create da poco per dar corso ad una riorganizzazione amministrativa decisa da tempo: i Tories si sono aggiudicati il controllo di quattro aree metropolitane, mentre i Labour soltanto due, benché quelle strategicamente importanti di Liverpool e Manchester.

I risultati del 4 maggio hanno rappresentato l’apice della campagna politica di Theresa May perché da allora le cose per il partito conservatore sono andate in direzione di un lento e graduale peggioramento[1]. Nell’ultimo rilevamento effettuato dalla piattaforma YouGov, il sostegno al partito conservatore è stimato attorno al 42%, mentre i laburisti vengono dati al 38%, con un distacco di solo 4 punti percentuali: tradotto in termini di seggi, i conservatori raggiungerebbero i 317 seggi, ovvero meno di quelli attuali (330) ed al di sotto della soglia necessaria per governare da soli (326)[2]. Questa tendenza era già stata colta da un sondaggio effettuato dall’istituto Ipsos Mori, nei giorni dal 15 al 17 maggio, dopo la rivelazione dei manifesti politici dei partiti: se da una parte il partito conservatore continuava ad avere un sostegno forte (48%), dall’altra i Labour erano dati in forte ripresa, essendo passati dal 26% al 34% delle preferenze. Il sito Britain Elects, che si occupa di valutare i trend politici britannici e le intenzioni di voto, anche in chiave storica, fornisce una stima più ampia del gap tra Conservatori e Laburisti, confermando, però, il recupero elettorale di questi ultimi: alla data del 31 maggio i Tories vengono accreditati al 44,3%, mentre i Labour al 35,1%[3].

Aldilà della validità o meno delle analisi previsionali effettuate, tutti i principali istituti di sondaggi hanno ricalcato l’incredibile rimonta del partito laburista di Jeremy Corbyn. Quali sono i motivi? Una delle ragioni di questa inversione di tendenza è da ascriversi ai cambiamenti di idea di Theresa May: apparteneva all’ala conservatrice favorevole alla permanenza nella UE e adesso sostiene addirittura una Hard Brexit, aveva detto di essere contraria alle elezioni anticipate, ma poi le ha annunciate improvvisamente. Come hanno spiegato alcuni sondaggi, la May aveva riscosso da subito grande successo perché appariva diversa dagli altri, capace di mantenere la parola data: questa doppia inversione ad U ha, invece, dimostrato che è come gli altri e ciò ha eroso una parte del consenso iniziale di cui disponeva. Non va dimenticato l’effetto stanchezza degli elettori britannici che sono stati chiamati a votare già due volte negli ultimi due anni: il 7 maggio 2015 si è votato per le elezioni politiche, il 23 giugno 2016 per il referendum sulla permanenza nella UE. La chiamata alle elezioni anticipate ha, inoltre, bloccato nuovamente l’inizio delle trattative per la Brexit, e i britannici iniziano a pensare che cominci ad essere troppo tardi: il capo negoziatore UE per la Brexit, Michel Barnier, ed il suo staff alla Commissione Europea hanno fatto trapelare l’ipotesi che le contrattazioni potrebbero essere condotte attraverso cicli di colloqui specifici della durata di quattro settimane, il che porterebbe l’intero processo a durare all’incirca 18 mesi[4]. Ciò che più di tutto potrebbe aver influito sul cambio di opinione dell’elettorato britannico sono state, probabilmente, le discussioni riguardanti l’entità del conto da pagare per lasciare la UE. La cifra che la Gran Bretagna dovrebbe fornire alla Ue per uscire è stata anticipata dal Financial Times che l’ha stabilita in circa 100 miliardi di Euro: la cifra sarebbe stata calcolata aggiungendo anche le richieste di Francia e Germania che pretendono che la Gran Bretagna continui a pagare anche per i sussidi agli agricoltori e per le agenzie UE[5]. I negoziatori UE, invece, pongono questa cifra un po’ più in basso, a cavallo tra i 60 e gli 80 milioni di euro. Perché queste differenze? Il negoziatore europeo per la Brexit sostiene che i britannici dovranno coprire tutte le spese programmate per le quali si erano impegnati, prima di decidere per la Brexit. Non è ben definito cosa sia incluso in questa cifra, sarà infatti oggetto dei colloqui bilaterali: potrebbero esserci il pagamento delle pensioni ai membri UE, le garanzie sui prestiti concessi, le spese infrastrutturali programmate, il costo di rilocazione delle agenzie europee situate in Gran Bretagna[6]. La cifra esatta differisce di molto a secondo di chi fa le valutazioni: il think tank Bruegel ha stimato che il pagamento iniziale per la Gran Bretagna potrebbe oltrepassare i 100 milioni di euro ma, al netto dei rimborsi, si assesterebbe a circa 50 milioni. Il balletto sulle cifre ha causato la reazione indignata di Theresa May che ha accusato i politici europei di voler condizionare la tornata elettorale dell’8 giugno. Il negoziatore britannico per la UE David Davis ha rincarato la dose, dicendo che la Gran Bretagna pagherà ciò che è legalmente dovuto, ma non ciò che vogliono i governanti UE. Insomma, la questione soldi appare un punto assai dirimente, soprattutto dopo che il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, ha avvisato che prima di iniziare qualsiasi tipo di trattativa sui futuri accordi commerciali, la Gran Bretagna dovrà risolvere i problemi legati a “soldi, persone ed Irlanda del Nord”.

In questo intreccio di interessi e opportunità, si è inserito il terribile attentato di Manchester del 22 maggio, nel quale sono morte 22 persone, principalmente teenager[7]. E’ difficile valutare le ripercussioni che l’attentato può avere sull’orientamento elettorale britannico in questo ultimo periodo: solitamente, avvenimenti del genere, serrano i ranghi, creano un desiderio di sicurezza ed un ricompattamento attorno al leader. L’attentato di Manchester, però, è già il secondo che avviene da quando Theresa May è entrata in carica, ed in questa occasione, come in quello avvenuto nei pressi di Westminster lo scorso 22 marzo, Scotland Yard è parsa in grandi difficoltà e correre ai ripari solo a cose fatte. Date queste premesse, la questione sicurezza assume un carattere primario ora e nei futuri colloqui per la Brexit. La Gran Bretagna è un membro dell’Europol, l’agenzia di contrasto dell’Unione Europea che aiuta i paese membri a combattere il crimine transnazionale, ed è un firmatario dello European Arrest Warrant, attraverso il quale possono essere trasferite le persone ricercate da altri stati[8]. In questo turbinio di valutazioni, una premessa ampiamente accettabile è che benché la May si presenti alle elezioni con i sondaggi tutti a suo favore, non esistono elezioni prive di rischio[9]. La strategia offensiva della May potrebbe incontrare delle difficoltà innanzitutto in Scozia e Irlanda del Nord, dove l’indipendentismo ha trovato nuovo vigore dopo il referendum del 23 giugno, nel quale i due paesi avevano votato largamente a favore della permanenza nella UE. Lo Scottish National Party (SNP) sta sfruttando la situazione per dipingersi come l’ultimo baluardo contro un Regno Unito che rischia di essere dominato dai conservatori, e la sua leader, Nicola Sturgeon, ha rinnovato i propositi di indipendenza, perché non vuole che la Scozia rimanga fuori dal mercato unico[10]. In Irlanda del Nord, lo Sinn Fein, partito indipendentista nordirlandese, ha rispolverato il Good Friday Agreement del 1998 che, permettendo la possibilità di unione con l’Irlanda, gli consentirebbe anche di rimanere all’interno della UE[11]. Le ultime rilevazioni di YouGov attribuiscono 47 seggi allo Scottish National Party, 18 ai partiti nord irlandesi, 3 agli indipendentisti gallesi del Plaid Cymru che aggiunti ai voti dei Lib Dem e di altri partiti minori sottrarrebbero circa 80 voti alla contesa Tory-Labour.

Il sistema elettorale britannico aggiunge poi altra complessità ad uno scenario già molto difficile da interpretare: essendo basato su collegi uninominali chiamati Constituency, nel quale si afferma il candidato con più voti, il principio del “first past the post”, non sempre permette una diretta correlazione tra percentuali di voto nazionali e numero dei seggi. Lo scarto marginale tra vari candidati potrebbe, in virtù di tale sistema, incoraggiare la costituzione informale di alleanze “progressiste” tra LibDem, Labour e Green per limitare un’affermazione strabordante dei Tories. Altro elemento da non trascurare, in un contesto di “stanchezza politica” è che il Labour riscuote successo principalmente in quelle fasce d’età più attive politicamente. Il partito conservatore, d’altro canto, potrebbe attingere a piene mani dall’elettorato UKIP, scontento dell’attuale dirigenza ed attirato dai propositi di un hard Brexit, minacciati  da Theresa May a degli esterrefatti Juncker e Tusk.

Se la vittoria di Theresa May non è in discussione, è l’ampiezza del suo vantaggio che pone più di qualche dubbio: i principali istituti di valutazione la pongono in un range molto ampio, che varia dai 50 ai 200 seggi[12]. Una larga affermazione dei conservatori rappresenterebbe una naturale autorizzazione per la May a proseguire nei suoi intenti nei colloqui per la Brexit: negli ultimi tempi la premier ha più volte sostenuto che preferirebbe non trovare alcun accordo, piuttosto che essere costretta ad accettarne uno cattivo[13]. In ciò incontra l’ostilità della comunità affaristica britannica che è unita nel volere un accordo positivo[14], con meno barriere possibili, e aborre una soluzione che generi incertezza[15].

Il peggior scenario per la May sarebbe quello di ottenere un guadagno risicato, che aumenti le difficoltà di governo, piuttosto che diminuirle[16]. Se è abbastanza prevedibile capire cosa rappresenterebbe una larga vittoria per Theresa May, non è facile comprendere cosa accadrebbe in caso di sconfitta. Allo stato attuale, la Brexit non sembra in discussione, perchè nessun partito, nel corso della campagna elettorale, ha manifestato espressamente la volontà di fermare questo processo[17]. I Lib Dem hanno affermato che vorrebbero si svolgesse un nuovo referendum, ma una loro vittoria è altamente improbabile. Inoltre, ci si dovrebbe confrontare con il fatto che l’Art.50 non parla di un eventuale processo di reversibilità. In questo caso potrebbe subentrare la volontà degli organi e dei paesi membri dell’Unione Europea di accettare un passo indietro della Gran Bretagna, perché farebbe comodo a tutti, permettendo di evitare due anni di contrattazioni e di limitare le reciproche perdite economiche[18]. Inoltre, permetterebbe alla Gran Bretagna di evitare di percorrere quel tortuoso cammino tra la Global England preconizzata da Theresa May, grande e senza confini, ed una Little England, piccola, anzi piccolissima, e non più circondata soltanto da quel mare che ha costituito il principale fattore della sua potenza.

 

[1] ANTHONY BARNETT, Why is she frit?, OPEN DEMOCRACY UK, www.opendemocracy.net, 18 aprile 2017

[2] YOUGOV, Yougov election centre, www.yougov.co.uk, 1 giugno 2017

[3] BRITAIN ELECTS, How might Britain vote in a general election tomorrow?, www.britainelects.com, 1 giugno 2017

[4] POLITICO, EU maps out plan for 4-week cycles of Brexit talks, www.politico.eu, 5 maggio 2017

[5] GUY JOHNSON, TONY CZUCZKA, U.K. must honor EU obligations in Brexit, Germany’s Spahn says, BLOOMBERG, www.bloomberg.com, 25 maggio 2017

[6] MARION SOLLETTY, EU’s Brexit bill to the UK would cover cost of 74 agencies and institutions, POLITICO, www.politico.eu, 25 maggio 2017

[7] GABRIELE CARRER, Il lunedì nero (Fumo di Londra. Cento settimane per dirsi addio. Episodio 9), www.fumodilondra.com, 25 maggio 2017

[8] LEDKA MORTKOWITZ BAUEROVA, Terrorism shows need for post-brexit security ties, Czechs say, BLOOMBERG, www.bloomberg.com, 24 maggio 2017

[9] ECHO URBAN, Snap Election: a risky adventure?, www.urban-echo.co.uk, 8 maggio 2017

[10] REUTERS, Sturgeon insists Scots must be offered independence as Brexit opt-out, www.reuters.com, 30 maggio 2017

[11] PETER GEOGHEGAN, Inertia in Northern Ireland ahead of UK vote, DEUTSCHE WELLE, www.dw.com, 29 maggio 2017

[12] TIM ROSS, Top U.K. pollsters say Theresa May likely to boost her majority, BLOOMBERG, www.bloomberg.com, 1 giugno 2017

[13] ANDREW SPARROW, General election 2017: May says she intends to be ‘bloody difficult’ in Brexit negotiations, as it happened, THE GUARDIAN, www.theguardian.com, 2 maggio 2017

[14] DAN ROBERTS, CBI warns against Brexit divorce bill row putting EU-UK trade ties at risk, THE GUARDIAN, www.theguardian.com, 27 aprile 2017

[15] JOHN AINGER, ANOOJA DEBNATH, What will happen to pound sterling if Theresa May gets a big majority, THE INDEPENDENT, www.independent.co.uk, 25 maggio 2017

[16] GEORGINA LEE, Is Theresa May six seats from login the election?, CHANNEL 4, www.channel4.com, 22 maggio 2017

[17] ALAN RENWICK, If Theresa May loses the General Election in June, is Brexit over?, THE TELEGRAPH, www.telegraph.co.uk, 1 giugno 2017

[18] JOHN AINGER, Pound traders sweat as narrowing polls boost election jitters, BLOOMBERG, www.bloomberg.com, 27 maggio 2017

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