Secondo numero della trilogia sull’Artico. Leggi qui il primo
Il 2 agosto 2007 lo United States Geological Survey (USGS) pubblicò un dettagliato report sulle risorse energetiche potenzialmente contenute nei fondali artici, nel quale si rivelava che nell’area si sarebbe trovato l’equivalente di 90 miliardi di barili di petrolio, 44 miliardi di barili di gas liquefatto e oltre 1.600 metri cubi di gas naturale. L’analisi delle riserve artiche era stata condotta sulla base di valutazioni prospettiche di alcuni bacini situati al largo della Groenlandia, successivamente replicate, in maniera probabilistica, per il resto del Circolo Polare Artico. Per comprendere l’entità della scoperta, basti pensare che stiamo parlando di circa il 6% delle riserve mondiali di petrolio attualmente conosciute, o in termini di paragone il 110% delle attuali riserve russe, il 339% di quelle statunitensi. Il confronto diventa ancora più interessante se ci riferiamo al gas che rappresenterebbe, nel caso le previsioni si rivelassero fondate, il 24,3% delle riserve mondiali attualmente conosciute, il 500% di quelle americane, il 99% di quelle russe, il 2.736% di quelle canadesi.
Nonostante i dati forniti, la precisione dei rilievi dello USGS era fortemente condizionata dalla scarsità di dati geologici, tenuto conto che l’unica area dell’Oceano Artico scandagliata con precisione, all’epoca, era quella occidentale. Dalle rilevazioni effettuate successivamente sappiamo che il bacino centrale è attraversato da tre catene montuose sommerse e quasi parallele, una delle quali, la dorsale di Lomonosov, costituisce un’estensione della dorsale medio-atlantica e collega la piattaforma continentale della Groenlandia a quella della Siberia. La parte principale della piattaforma continentale che circonda il bacino centrale è ricoperta da acque insolitamente poco profonde: la profondità media del tratto di mare compreso tra l’isola di Novaja Zemlja e lo Stretto di Bering è inferiore ai 100 metri, mentre i fondali del Mare di Barents, più a est della linea tra Capo Nord, in territorio norvegese, e Capo Sud, nell’arcipelago delle Svalbard, variano tra i 250 e i 350 metri. Quest’area potrebbe subire dei cambiamenti strutturali importanti, a causa degli effetti del riscaldamento globale, che condurranno al progressivo scioglimento della calotta polare e al conseguente innalzamento del livello del mare: tale riduzione dei ghiacci renderebbe disponibile più mare per la navigazione commerciale e per lo sfruttamento delle risorse naturali del fondo e sottofondo marino.
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