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Di Roberta Lunghi

La Corte Penale Internazionale, con sede all’Aja (Paesi Bassi), è entrata in funzione nel luglio del 2002. Quattordici anni dopo, però, questa Corte e la stessa idea di un organo giudiziario che abbia competenza sovrannazionale sono in forte discussione.

La Corte è stata istituita nel 1998 in virtù dello  Statuto di Roma come prima e unica giurisdizione penale internazionale a carattere permanente e potenzialmente universale, lo Statuto è cioè aperto alla ratifica/accessione di tutti gli Stati. La Corte possiede personalità giuridica internazionale ed estende la sua giurisdizione in tutti i continenti, presentando un raro potenziale di deterrenza e repressione di numerose violazioni dei diritti umani: a giugno 2015 contava 123 Stati parte. I continenti più rappresentati sono l’Africa e l’Europa (soprattutto l’area dell’Unione europea), mentre l’Asia e il Medioriente hanno una rappresentanza marginale. Lo Statuto elenca nell’art. 5 i crimini sui quali la Corte è competente, includendo «i crimini più gravi, motivo di allarme per l’intera comunità internazionale»: si tratta di crimini di genocidio, contro l’umanità, di guerra e di aggressione (quest’ultimo è stato definito solo di recente, durante la Conferenza di revisione dello Statuto di Roma a giugno 2010). Benché la maggior parte delle fattispecie elencate fossero atti già definiti come violazioni dei diritti umani molto tempo prima dell’adozione dello Statuto di Roma, nonché definiti crimini da altre corti o tribunali, la Corte Penale Internazionale presenta delle novità importanti. Una di queste ha ricevuto un’attenzione notevole; si tratta del crimine di guerra relativo al reclutamento di ragazzi d’età inferiore a quindici anni nei conflitti armati. Nonostante la proscrizione di tale pratica dal diritto internazionale umanitario e da numerose convenzioni sui diritti umani, la Corte Penale Internazionale rappresenta la prima corte sovrannazionale con competenza sul crimine. È, inoltre, la prima istituzione a definire il reclutamento dei minori, un crimine di guerra, attribuendo così un carattere di massima gravità a tale pratica.

Le atrocità commesse durante la Seconda Guerra Mondiale spinsero le potenze vincitrici a istituire due tribunali militari speciali che giudicassero i crimini di guerra, contro la pace e contro l’umanità perpetrati dai nazisti e dai loro alleati. Il Tribunale Internazionale Militare di Norimberga è stato creato nell’ambito dell’accordo di pace di Londra dell’8 agosto 1945 tra Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Sovietica, mentre il Tribunale Internazionale Militare per l’Estremo Oriente (Tribunale di Tokyo) è stato istituito il 19 gennaio 1946. Questi due organismi sono spesso citati come i primi tribunali internazionali che avevano il potere e le competenze per giudicare la responsabilità penale individuale per alcuni criminali di guerra. In realtà, sia il loro carattere internazionale sia la loro caratteristica come predecessori del moderno diritto internazionale penale possono essere messi in dubbio. Si trattava, infatti, di tribunali imposti dagli Alleati alle due nazioni sconfitte (Germania e Giappone), operanti sotto la spinta di un pesante condizionamento politico, esercitato dai vincitori sui vinti. I due organismi erano solo limitatamente internazionali, in quanto rappresentativi di una parte minoritaria, anche se politicamente predominante, della comunità internazionale. Fu invece il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che intraprese il primo passo pratico, creando ad hoc, nel 1993, il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, competente a giudicare i responsabili di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità commessi nel territorio a partire dal 1° gennaio 1991. Solo un anno più tardi, nel 1994, il Consiglio di Sicurezza istituì un secondo Tribunale Penale Internazionale, al  fine di far fronte al genocidio in Ruanda, competente a giudicare gli stessi crimini, commessi nel territorio africano o, se da cittadini ruandesi, anche negli Stati vicini. I limiti dei Tribunali ad hoc sono principalmente due: sono limitati nel tempo e nello spazio, e la loro competenza non può estendersi al di fuori della situazione specifica per la quale ognuno di essi è stato istituito. Inoltre, sono stati creati in reazione a crimini già commessi, senza alcuna possibilità di prevenzione.

In seguito, nel 1998 fu tenuta a Roma la Conferenza diplomatica dei Plenipotenziari delle Nazioni Unite sulla creazione di una Corte criminale internazionale durante la quale fu adottato lo Statuto della CPI. Come già ricordato, la competenza della Corte ha potenzialità universale, poiché stabilita da un trattato multilaterale, il che elimina il primo limite dei tribunali ad hoc. Inoltre, la Corte ha competenza sui crimini internazionali inclusi nello Statuto stesso, dal momento della sua entrata in vigore, garantendo così la possibilità di giocare un ruolo di deterrenza e prevenzione.

La giurisdizione della CPI è limitata dal principio di complementarietà. Ciò significa che un’investigazione della Corte può avviarsi solo nel caso in cui lo Stato, che normalmente dovrebbe esercitare la sua giurisdizione, si è dimostrato incapace di occuparsi della situazione o non ha intenzione di occuparsene. Tale meccanismo prevede che quando uno Stato avvia delle indagini contro una persona, per gli stessi crimini per i quali l’individuo sarebbe stato indagato dalla Corte, la competenza nazionale prevale su quella della Corte stessa. Esistono due altri meccanismi che possono attivare la sua giurisdizione: il primo è la possibilità del Procuratore di intraprendere un’indagine preliminare di propria iniziativa, per poi domandare un mandato di arresto della Corte nel caso in cui siano confermate le ragioni, mentre il secondo è un potere più discusso. Questo prevede che il Consiglio di Sicurezza possa segnalare al Procuratore una situazione nella quale uno o più dei crimini previsti dallo Statuto appaiano essere stati commessi. Quest’ultimo meccanismo rappresenta la ragione principale per la quale alcuni Stati, come ad esempio gli Stati Uniti, non hanno ratificato lo Statuto, al fine di sottrarre i propri cittadini e i militari a un eventuale giudizio negativo per quanto riguarda il comportamento di questi nei casi previsti.

Dal 2002 a oggi, la Corte ha aperto delle indagini in diversi Paesi. L’iniziativa è partita dal Procuratore per tre situazioni riguardanti la Repubblica Democratica del Congo, l’Uganda e la regione sudanese del Darfur, in merito al crimine di guerra di reclutare, arruolare o utilizzare minori in conflitti armati. I primi due Stati hanno richiesto l’intervento della Corte; i mandati di arresto contro cinque membri dell’Esercito di Resistenza del Signore (LRA) in Uganda sono stati annunciati nel settembre del 2005, e contengono accuse sia per crimini contro l’umanità che crimini di guerra. Tuttavia, nessuna delle persone sospette è stata arrestata, nonostante l’emissione di mandati di arresto internazionali da parte dell’Interpol. Il 5 gennaio 2015, Dominic Ongwen, ex comandante del LRA, si è arreso alle forze speciali statunitensi che dal 2011 collaborano con una task force dell’Unione africana ed è in attesa del processo alla Corte dell’Aja che inizierà il prossimo 6 dicembre. Nel caso del Darfur, invece, il Procuratore è stato investito dal Consiglio di Sicurezza, ma non essendo stata finora registrata alcuna approvazione da parte dello Stato interessato, gravi difficoltà si sono opposte alla conduzione dell’inchiesta.

Attualmente, le indagini preliminari per confermare l’avvio di un’investigazione coinvolgono: Afghanistan, Burundi, Colombia, Gabon, Guinea, Regno Unito in Iraq, Nigeria, Palestina, Israele e Ucraina. Le situazioni sotto investigazione sono state avviate per: Georgia, Repubblica Centrafricana, Mali, Costa d’Avorio, Libia, Kenya, Sudan, Uganda e Repubblica Democratica del Congo.

I processi ancora in corso sono cinque: l’ex Presidente ivoriano Laurent Gbagbo è finito in custodia nel 2013 con l’accusa di aver commesso crimini contro l’umanità durante gli scontri post-elettorali del 2010, così il concittadino Charles Blé Goudé per l’accusa di omicidio, stupro e altre forme di violenza sessuale, persecuzione e altri atti inumani. La Corte ha riconosciuto per la prima volta lo stupro come arma di guerra nel doppio processo a Jean-Pierre Bemba, ex vicepresidente della Repubblica Democratica del Congo, accusato per le violenze commesse dalle sue milizie nel 2002 e nel 2003 nella Repubblica Centrafricana. Ultimo, Jean Bosco Ntaganda è un cittadino congolese e i crimini dei quali è accusato sono stati commessi durante il conflitto nell’Ituri, in cui si sono scontrati i gruppi etnici Hema e Lendu dal settembre 2002 al dicembre 2003.

Tra i casi portati a termine, la Corte ha formalmente chiuso a marzo di quest’anno il procedimento contro il Presidente del Kenya Uhuru Kenyatta, primo capo di Stato in carica a comparire davanti ai giudici dell’Aja, con l’accusa di aver avuto un ruolo nelle atroci violenze scoppiate dopo le elezioni del 2007. In realtà, il caso è stato lasciato cadere per insufficienza di prove, ma ha contribuito ad alimentare il mito del “pregiudizio africano”. Tra i protagonisti della campagna a favore di Kenyatta, il Presidente ugandese Yoweri Museveni non ha nascosto la sua intenzione di arrivare a un ritiro di massa dei Paesi africani dallo Statuto di Roma.

L’Africa è tra i principali “azionisti” della Corte: su 123 Paesi che hanno siglato lo Statuto di Roma, ben 34 sono africani. Forse uno tra i motivi non secondari per cui lo sguardo dell’Aja si è posato spesso sul continente nero, sta nel fatto che metà dei conflitti in corso sono combattuti su suolo africano. Un’altra ragione potrebbe essere che, proprio a causa di tale violenza, la stessa società civile africana ha avuto particolare interesse a instaurare uno stato di diritto, sostenuto dall’esterno se necessario. Un’esigenza questa che però viene avvertita meno dai capi di Stato, soprattutto da quelli che tendono a ritenersi al di sopra del diritto internazionale. Se a questo si aggiunge l’estrema lentezza d’intervento dimostrata dalla CPI, dovuta anche alla mancanza di maggiori mezzi operativi, ecco che la Corte non gode di una buona immagine e la sua stessa esistenza è ormai in discussione.  L’art. 27 dello Statuto di Roma afferma che «la qualifica ufficiale di capo di Stato o di governo, di membro di un governo o di un parlamento, di rappresentante detto o di agente di uno Stato non esonera in alcun caso una persona dalla sua responsabilità penale», la sua abrogazione potrebbe essere uno degli obiettivi degli avversari della Corte. Allo stesso tempo, nel 2014, al summit dell’Unione Africana in Guinea Equatoriale, è stato deciso che proprio questo principio dovrebbe essere tra i cardini di una futura Corte africana per la giustizia e i diritti umani, un organo giudiziario che gran parte dell’Africa vorrebbe istituire proprio in contrapposizione alla CPI. Una simile corte panafricana, in realtà, esiste già dal 2004 ad Arusha, in Tanzania, ma è rimasta sostanzialmente inerte, non agevolata dalla leadership politica del continente.

Che cosa succederà ora che tre Paesi africani hanno deciso di abbandonare la Corte Penale Internazionale dell’Aja? Sudafrica, Burundi e Gambia hanno fatto questa scelta e ce ne sono altri che pensano di seguire la stessa strada.

Il Sudafrica ha comunicato alle Nazioni Unite di voler abbandonare la CPI perché imparziale nei confronti dei paesi africani. Già l’anno scorso il Sudafrica aveva annunciato una probabile uscita, dopo che il paese si era rifiutato di arrestare il Presidente del Sudan Omar al Bashir, che si trovava a Johannesburg in occasione di un incontro dei rappresentanti dei Paesi membri dell’Unione Africana e contro il quale erano già stati emessi due mandati di arresto dalla CPI, nel 2009 e nel 2010, per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio nel conflitto del Darfur. Un tribunale di Pretoria avrebbe dovuto decidere se arrestare al Bashir come richiesto dalla CPI, ma prima che il verdetto fosse emesso il presidente del Sudan lasciò il paese e la Corte criticò il Sudafrica per non aver arrestato immediatamente il sospettato. Il governo di Jacob Zuma aveva però garantito l’immunità a tutti i partecipanti al summit dell’Unione Africana, ignorando anche un ordine della Corte suprema di Pretoria che intendeva bloccare al Bashir nel Paese. Dopo quanto accaduto a Johannesburg, molti capi di Stato africani non hanno nascosto la loro soddisfazione e ne hanno approfittato per ribadire che la CPI ha un vero e proprio pregiudizio nei confronti dell’Africa. La scelta del Sudafrica potrebbe aprire la strada ad altri Paesi africani e destabilizzare il continente. Infatti, hanno scelto di uscire anche Burundi e Gambia. Il 12 ottobre i parlamentari del Burundi hanno votato per lasciare la Corte, dopo un periodo di tensione iniziato quando il Presidente Pierre Nkurunziza si è candidato per un terzo mandato sfruttando una controversa interpretazione della Costituzione e sono iniziate proteste, polemiche e scontri violenti. Così il Gambia ha minacciato l’abbandono e il motivo di fondo è sempre di matrice razziale, che la Corte abbia come solo obiettivo quello di colpire gli africani. Adesso, anche Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio e Repubblica Centrafricana puntano a seguire l’esempio degli altri fuoriusciti africani.

Oltre agli Stati africani, il 16 novembre scorso, in concomitanza con l’apertura della 15° Assemblea degli Stati parte dello Statuto di Roma, la Russia ha reso nota la sua decisione di lasciare la Corte. Il Presidente Vladimir Putin ha firmato un decreto con il quale comunica la decisione di non ratificare il Trattato istitutivo della CPI che Mosca aveva firmato nel 2000. Punto di rottura con Mosca sarebbero state le valutazioni espresse in merito alla Crimea, nelle quali la Corte ha definito l’annessione della regione un’occupazione da parte della Russia. Nelle settimane precedenti, Mosca era già finita sotto accusa anche per le sue operazioni militari in Siria, con il Presidente francese Francois Hollande che aveva chiesto l’avvio di un’inchiesta per crimini di guerra commessi con i raid su Aleppo. Il Ministro degli Esteri russo ha accusato la Corte di mancanza d’indipendenza, soprattutto nei confronti dell’Assembla generale e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

La domanda che qualcuno comincia a porsi è: ha ancora senso una Corte come quella dell’Aja? Ha senso un tribunale che vorrebbe essere universale, ma che rappresenta appena un quarto della popolazione mondiale? I risultati appaiono deficitari, questo a prescindere dal difficile rapporto che la Corte ha avuto e continua ad avere con il continente africano.

 

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