Il 4 novembre 2015 sono salito su un aereo, salutando chi mi aveva accompagnato all’aeroporto con una forte stretta al cuore e un pensiero fisso in testa: «cosa mi aspetterà in Burundi?». Il viaggio non riesce a distrarmi, come neanche gli aeroporti di Vienna e di Addis Abeba, dove faccio scalo; il pensiero costante è cosa troverò a Bujumbura, la capitale, dove resterò per due mesi, fino al 22 dicembre, giorno del rientro in Italia. Non è la prima volta che mi reco in Burundi, ma in entrambe le volte precedenti la situazione era decisamente più tranquilla. Mi viene in mente che solo un anno e mezzo prima mi spostavo per tutta la città, su un pick-up, in compagnia di altri volontari come me, giunti in Burundi per il gusto dell’avventura o del servizio. Passati i mesi, le cose sono cambiate, per precipitare vertiginosamente all’inizio del 2015.
La decisione di Pierre Nkurunziza di ricandidarsi per la terza volta consecutiva alla Presidenza del Burundi, violando la Costituzione burundese, ha innescato una protesta della maggior parte dei giovani. Essi sono scesi nelle strade e hanno urlato slogan, bloccato le strade, lanciato pietre e si sono scontrati con le forze di sicurezza burundesi. Le vibranti proteste non hanno portato a nulla, c’è stato persino un tentativo di colpo di Stato nel maggio 2015, represso duramente, e diversi Paesi europei hanno preso le distanze dalle violenze e sospeso gli aiuti e le donazioni. Nkurunziza è stato rieletto Capo dello Stato a luglio. Stampa e società civile sono stati subito imbavagliati e chi ancora protesta è condotto in prigioni sempre più affollate. Le armi allora hanno preso il sopravvento: alcuni si sono convinti che se il governo non li ascolta è tempo di prendere in mano le armi.
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